Monica, Manfredi e Mario
Una storia, un racconto, un'emozione
Quando ho visto Mario Balotelli, “nero”, grande e bellissimo abbracciare la sua mamma piccola, anziana e soprattutto “bianca” mi sono commossa. Lo so, non sarò stata la sola. Tutti sanno che Mario è figlio adottivo. Ma per me un po’ diverso lo è: io sono quella mamma!
Perché per me adottare Manfredi è un’emozione lunga dodici anni, una parte della mia vita che ancora oggi non posso raccontare senza i lucciconi agli occhi.
La mia esperienza è sicuramente uguale a quella di tante mamme adottive… i figli che non vuoi subito perché vuoi vivere un po’ di vita di coppia… i figli che non arrivano, i tentativi medici e poi la nascita di un’idea (sicuramente già in embrione, forse ha contribuito la famiglia vicina di casa con tre figli adottivi ormai più che trentenni).
Quest’idea nella mia testa e in quella di mio marito è diventata un treno ad alta velocità. Non ci ha mai abbandonato da quando abbiamo detto a noi stessi “SI” (mio marito, prima incerto, una sera mi ha detto: “E’ triste morire senza figli” – Nanni Moretti.)
Siamo stati una coppia baciata dalla fortuna: domanda depositata in Tribunale nel maggio del 2001, un percorso preadottivo con professionisti capaci e, a ottobre del 2002, un uragano di otto mesi è entrato per sempre nella nostra vita.
Anche così sembra facile, ma non lo è mai. In tutto quel periodo mi sono tormentata per la paura di non potere voler bene veramente a un bambino che non avevo partorito. Un bambino che non è sangue del mio sangue, carne della mia carne. E non vogliamo dire niente dell’ansia di non sapere se sarà uno o saranno due, piccino o se piuttosto ti dovrai confrontare con un bimbo di tre, quattro, cinque anni?
Ma continuo con il mio racconto. Dopo avere superato tutto l’iter e avere ottenuto l’idoneità, mentre navigavo nei siti delle adozioni internazionali poiché ci avevano detto che in Italia è molto difficile adottare, ci chiamano dal Tribunale dei Minori (estate 2002.)
Funzionava così ai nostri tempi: chiamavano un bel numero di coppie (40, 50 per ogni caso), entravano le coppie in piccoli gruppi, i giudici esponevano brevemente il caso e, dopo averti fatto dire qualcosa di abbastanza generico su di voi come coppia e varie (del resto dovrebbero avere già presenti le relazioni su di voi in base alle quali, per motivi che per me e penso per la moltitudine dei genitori adottivi resteranno sempre misteriosi, vi hanno chiamato per quel caso), facevano un giro di vere e proprie consultazioni “SI” – “NO”.
Una mattina mi arriva una telefonata in ufficio. E’ fatta! Chiamata giovedì, incontro in Tribunale lunedì. Il peggiore weekend della nostra vita, sicuramente il più lungo. Il sabato successivo conosciamo nostro figlio e, dopo un po’ di vai e vieni dalla casa famiglia, in cui era stato amorevolmente cresciuto, lo portiamo a casa.
Anestesia delle emozioni. Ricordo i fatti, le facce, le parole ma assolutamente niente di quello che ho provato. Del resto quando ti operano non ti fanno l'anestesia? E non è altrettanto forte ritrovarsi tra le braccia tuo figlio che non è come lo avevi pensato e sognato anche ad occhi aperti? E' tuo e basta. E l'amore che si prova è fatto di carne e di sangue
Il perchè non lo so, ma ne sono sicura.
Chiudo dicendo che una delle cose che ancora m’infastidiscono dopo anni è quello che io chiamo lo stupidario dell’adozione: “Hai fatto un’opera di bene”.
“No” – rispondo io – “Ho avuto un figlio!”
E' solo un po' speciale... perché bisogna accompagnarlo per una strada che lo porta a ritrovare se stesso, anche voltandosi indietro, verso un passato a volte oscuro come nelle favole che si raccontano ai bambini, popolate da genitori cattivi che abbandonano nel bosco.
Solo che i genitori di Manfredi e di tutti i bambini adottivi li hanno abbandonati davvero nel bosco...
E l'amore che si prova è fatto di carne e di sangue